Un racconto per chi ha perso troppo presto chi amava troppo forte
Ci sono ferite che non si rimarginano mai del tutto.
La perdita di un genitore – soprattutto quando arriva troppo presto – è una di quelle.
Per qualcuno, un anno può sembrare tanto tempo; per chi ha subito un lutto così grande, può essere un battito di ciglia. Il dolore non segue orologi o calendari: ognuno ha i suoi tempi, e imparare a vivere senza chi riempiva la nostra vita è un percorso che non ha scadenze.
Ho scritto questo racconto tempo fa, come sfogo e come aiuto a me stessa, dopo aver perso i miei genitori. Oggi lo riprendo in mano pensando a un’amica che, da un anno, vive senza il suo amato babbo. Spero che queste parole possano dare conforto anche a chi, oggi, si sente perso.

La stanza della luce
C’erano giorni in cui la casa sembrava più vuota del solito.
Non perché mancassero voci o passi, ma perché mancavano loro.
Il suono del cucchiaino nel caffè del babbo, il profumo del sugo della domenica fatto dalla mamma.
Era come se il tempo avesse portato via gli arredi invisibili: quelli che non si vedono, ma che riempiono tutto.
Clara aveva perso entrambi i genitori troppo presto.
Troppo in fretta.
Senza che avesse avuto il tempo di prepararsi.
«Sei forte», le dicevano. Ma lei non si sentiva forte. Si sentiva sradicata.
Come un albero rimasto in piedi solo per inerzia.
Un giorno d’autunno, aprì la vecchia soffitta.
Cercava una sciarpa, trovò invece una scatola di lettere.
Era la calligrafia di sua madre: precisa, piena, calda come le sue mani.
Dentro ogni foglio c’erano piccoli consigli, ricette, racconti di quando lei, Clara, era piccola.
E una frase scritta più volte:
«Non smettere di vivere, nemmeno quando ci sembrerà impossibile.»
Clara pianse.
Non le lacrime che scendono in fretta, ma quelle lente, profonde, che vengono da un pozzo che si credeva secco.
In quel momento capì qualcosa che nessuno le aveva detto chiaramente:
non c’è un tempo per guarire dal dolore.
Non esiste un calendario dell’anima.
È normale piangere ancora dopo mesi, dopo anni.
Anche piangere è amare.
Perché ogni volta che un odore ci riporta un ricordo, ogni volta che un silenzio ci fa sentire una mancanza,
le lacrime che scendono non sono debolezza —
sono amore che non ha trovato altra via per uscire.
Non esiste una data di scadenza per il dolore.
E il pianto, se arriva, è solo un altro modo per dire: «Mi manchi.»
Da quel giorno, tornava spesso nella soffitta.
Accendeva una piccola lampada, leggeva una lettera, respirava piano.
Era diventata la sua stanza della luce.
Non guariva il dolore, ma gli dava un posto sicuro, una forma, un nome.
Un giorno, portò lì suo figlio. Gli mostrò le lettere.
Lui chiese:
— Ma non ti manca la nonna?
Clara sorrise.
— Sì, ogni giorno. Ma ora non fa più male come prima.
È come il sole in inverno: non scalda tanto, ma ti ricorda che la luce esiste.
E mentre lo diceva, capì che parlare del dolore è anche un modo per non dimenticare.
Per lasciare che l’amore continui a vivere.
Anche senza corpo. Anche senza voce.
Per chi sta vivendo questo dolore
Se hai perso qualcuno troppo presto, ricordati che non c’è un “dopo” in cui il dolore scompare come per magia.
Ci sarà un tempo in cui imparerai a conviverci, un tempo in cui il vuoto sarà riempito, almeno in parte, dai ricordi più dolci.
Piangere, anche dopo anni, non è un segno di debolezza, ma di amore che continua a vivere.
A chi oggi si sente sradicato, voglio dire:
custodite i vostri ricordi come fosse la vostra stanza della luce.
Tenetela accesa. Tornateci ogni volta che serve.
Questo racconto lo dedico a Fabio, il babbo della mia amica, che continuerà a vivere nei suoi gesti, nei suoi pensieri e nel suo cuore. Sempre.






